Ars Historica SSD

Il Duello

«Onde ciascuno che a singulare o plurale battaglia sia per entrare, sopra tutto exorto, anzi ammonisco, che, come l’antiquissimo Thebano Hercule, cerchi d’avere dal canto suo la iustitia, il quale ancora ch’el più feroce de l’universo fusse, mai contra la ragione combattere non volle. Et quello che il contrario operasse, benchè valente della persona fosse e nelle armi ottimamente istruito, può quasi di perdita o di vergogna essere certo, perchè il Sommo Iddio quale è chiarissima Verità, per la immensa iustitia sua, permette che violata quella non sia. Et sopra tutto notifico a ciascuno che a differentia perviene, nel parlare sia molto circonspetto, perchè anchora che la iustitia habbia dal canto suo, pure nel mal accorto ragionare può in qualche parola transcorrere, sopra la quale lo adversario suo equalmente fondare si puote & il primo, che la iustitia haveva per lui, si viene a privare di quella, & in torto la converte, et poi con le armi in mano combattendo, perchè ha per suo difetto persa la iustitia, anchora armata mano perde ignominiosamente la guerra & a lui & alli astanti (la verità non cognoscendo) pare che la iustitia dalla forza venga superata, e sono fuora di verità, per bene non intender la querela.»

Il Rinascimento italiano rappresentò indubbiamente il periodo più glorioso socialmente ed allo stesso tempo il più raffinato culturalmente per quanto riguarda il duello, la cui pratica ormai cominciava a discostarsi da quella del duello giudiziario ordalico, così come dal duello in torneo, protagonisti dei secoli precedenti, nella sempre più specifica forma di duello per la salvaguardia del proprio onore, con cui nobili e uomini d’arme ritenevano di risolvere la gran parte delle loro controversie al di fuori di qualsiasi intromissione di un’autorità pubblica o militare.

Nel secolo di Leonardo e Michelangelo, parlare dei duelli equivale a trattare di una vera e propria scienza dell’onore, la quale è definibile senza alcun dubbio come una materia normativa legata alla nobiltà europea e fondamento del diritto del ceto. Il nobile era per antica tradizione il cavaliere, colui che combatteva e che, come tale, non poteva non conoscere il mestiere delle armi, e che quindi non poteva sottrarsi al duello. A sua volta, l’ascesa della figura del guerriero non nobile, come furono le origini di molti condottieri italiani, il quale tramite l’esercizio delle armi tendeva a nobilitarsi, infranse l’esclusività della materia a coloro che ebbero la fortuna di nascere col “sangue blu” nelle vene. Il linguaggio dell’onore di natura nobile e militare prese la sua definitiva forma durante il periodo rinascimentale, quindi, da una lunga tradizione di consuetudini secolari e fu elaborato dalla trattatistica europea al di fuori e contro gli interessi degli emergenti Stati assoluti, esprimendo etica ed aspirazioni del ceto, oltre che momento essenziale e formativo nell’educazione della gioventù di alto rango del XVI secolo.

La necessità da parte della più alta classe sociale di una sua area indipendente sulla materia dell’onore e sul suo senso di giustizia emerse con forza verso la fine del XV secolo come è possibile evincere dal trattato, datato 1472, intitolato “De duello, vel De re militari in singulari certamine” per mano del giurista amalfitano Paride dal Pozzo. Tant’è che lo stesso Marozzo, nella sua figura di Maestro d’armi, non poteva risultare estraneo all’argomento, ragion per cui riprese a piene mani, seppur elaborandoli a propria discrezione, i capitoli presenti nella suddetta opera ed inserendoli nel quinto libro del suo “Opera Nova”. Sempre secondo dal Pozzo, prendendo chiara ispirazione dai fatti descritti nelle Sacre scritture, il duello fu creato da Dio col fine di ristabilire la giustizia a terribile monito dei malfattori.

Nelle decadi successive all’opera di dal Pozzo, seguì un periodo decisamente florido per la scienza dell’onore con la pubblicazione di numerosi trattati per mano di giuristi esperti in materia, ma anche di altri autori di diversissima estrazione, tra cui cortigiani, umanisti, uomini d’arme, signori, filosofi, dando vita tutti assieme ad un vero e proprio crocevia di conoscenze sia sulla leggittimità storica e divina del duello sia esprimendo pareri scettici se non fortemente contrari.

Un tema che fece molto discutere all’interno di questa scienza dell’onore, e da cui bisognò fare i dovuti distinguo per nobilitare le ragioni dell’esistenza del duello, era la questione della vendetta. Un omicidio per vendetta poteva essere considerato più giustificabile, o meglio indice di minore pericolosità nel colpevole a differenza di un omicidio spinto da futili motivi. Ma allo stesso tempo la volontà di vendetta poteva anche rappresentare una insidiosa ribellione nei confronti della giustizia pubblica, espressione di una latente e criminosa inclinazione nel farsi giustizia da soli.

Nel contesto marziale delle Guerre d’Italia del primo Cinquecento, talvolta i giuristi riconoscevano ed al contempo disconoscevano la vendetta, ponendola alla stregua di una legittima difesa con argomentazioni poco valide. Sulla vendetta si soffermavano, invece, con ben maggiore incisività i trattati sul duello, giuristi o meno che ne fossero gli autori. Sempre il succitato Paride dal Pozzo affermò:

«Li moderni cavallieri, quali hanno il sangue caldo et la cholera accesa non curano andare in iudicio per tale iniurie, et infamie, ma sono desiderosi venire a la spata de boto solo per vendicarse de le iniurie loro, et le sententie iudiciale dicono non bastare, ma la spata devere essere la vera satisfatione per stilo de arme.»

Un altro finissimo giurista, oltre che presidente del Consiglio d’Italia sotto il re francese Filippo II, fu Giulio Claro. Nel suo trattato sul duello, il Claro rassicura che duello e vendetta erano pratiche assai distanti. Già l’insolita formula del giuramento, che doveva essere recitata all’inizio prima del combattimento, era assai chiara a questo riguardo:

«Giuro io Giulio Claro per il santissimo nome d’Iddio ottimo massimo che la querela contenuta nel presente cartello, per la quale io intendo di sfidar a battaglia, io la reputo e tengo per vera giusta e legitima, ma, non potendo con altra prova che con l’arme farne conoscere la verità per difesa dell’honor mio, sono ricorso e ricorro a questa via di duello et non già mosso da desiderio di vendetta né sospinto da odio né rancore. Et se altrimente è di quello che io dico et giuro supplico il grande iddio che in me converta la sua vendetta et mi faccia rimaner della proposta battaglia con eterna infamia o morte vituperato perditore. Amen.»

Girolamo Muzio, un’altra figura di spicco appartenente ai professori preparati sulla materia, esortò l’imperatore Carlo V proponendo una legge che disciplinasse i duelli in tutta l’Europa cristiana, richiedendo esplicitamente che tale scontro si sarebbe dovuto svolgersi solamente in presenza di una reale lesione d’onore da sanare:

«Che i Prencipi et i Signori sottoposti alla M.V. et al sacro Romano Imperio non diano campo ad alcuno, che prenda querela per intentione di vendetta.../»

Al contrario, il dotto e da più parti lodato condottiero Pietro Monte argomentava nel 1509 nel suo trattato intitolato “De Singulari Certamine Sive Dissentione” che il duello pubblico rappresentava propriamente lo storico superamento della vendetta: l’ira ed il risentimento vi si assoggettavano al diritto di ceto. L’emblema di quel superamento era nel campo franco, che individuava un istituto di diritto divino e naturale al pari della guerra. 

In effetti, nel duello giudiziario d’onore, la figura del giudice era il signore che, nella sua autorità, aveva concesso il campo franco e che era stato individuato da entrambe le parti attraverso formali procedure. Era un giudice nel senso più stretto del termine, davanti al quale si svolgeva un vero e proprio processo, con un attore ed un convenuto, con eccezioni, repliche, termini, responsi, questioni incidentali, sentenze interlocutorie e definitive. Insomma, ribadivano sempre i trattatisti: “Duellum honoris causa, sed ad instar iudiciorum”. Non aveva, quindi, nulla a che fare concettualmente con la vendetta: era un giudizio rituale, sia pur secondo l’usanza militare della classe nobiliare. Non era vendetta più di quanto lo fosse rivolgersi al tribunale ordinario.

In fondo, non erano pochi i requisiti d’ammissibilità per l’avvio di quell’iter che rendeva lecita l’organizzazione del duello, i quali possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

  1. che sul provocato gravi una diffamazione o il fondato sospetto di un comportamento diffamante;
  2. che non vi sia possibilità di dar prova ordinaria con documenti e testimonianze;
  3. che il provocante sia di dignità pari o superiore al provocato;
  4. che si tratti di una vertenza inerente alla sua persona e alle sue qualità, e non di una mera questione patrimoniale;
  5. che non sia già stata prescelta la via del giudizio ordinario.

Visto quanto, il duello assumeva le fattezze di un simbolo del privilegio nobiliare e della giustizia alternativa esercitata dai nobili a tutela della propria identità, e del proprio onore: a ciò pareva alludere il requisito della non patrimonialità della causa congiunto a quello della pari dignità del provocante.

Ma superata la prima metà del XVI secolo, il vento cominciò a soffiare verso un’altra direzione. Ben prima di arrivare al Concilio di Trento ed alla definitiva condanna da parte della Chiesa in merito alla pratica del duello, già filosofi e giuristi cominciarono ad esprimere a gran voce la propria contrarietà. Uno di questi fu proprio il già menzionato Giulio Claro. Addottoratosi nel 1550, si dedicò all’attività consulente ed alla redazione di opere letterarie. Nel proemio del suo “Trattato sul Duello” afferma con forza, già nel 1560, l’evidente contrasto fra princìpi cristiani e la pratica del duello:

«Et se alcuno dirà che tale sentenza sia nimica della legge di Christo, non negherò io che questo vero non sia, anzi dirò che tutte le leggi dell’honore da cavalieri con tanta diligenza osservate sono alla christiana legge contrarie, per la quale a noi è ordinato che, essendo di una guanciata percossi, dobbiamo porger l’altra guancia per riceverne un’altra, sì che a coloro che vogliono nella christiana vita essere perfetti non si debbe estimare che scritte siano le leggi dell’honore moderno, sapendo ch’egli è impossibile piacere insieme a gli huomini et a Christo, anzi che lo honore di questo secolo è inviso a Iddio.»

Per quel che riguarda la dimensione sociale, politica e culturale, c’è da dire che già nel 1541 il consiglio dei dieci della Repubblica di Venezia approvò un tipo di provvedimento legale che sanzionava il duello in tutto il territorio. Questo drastico cambiamento aveva lo scopo non solo di estirpare i duelli, o almeno di sottoporli al controllo e all’autorizzazione dell’autorità statale, tant’è che veniva tolta la residenza veneta per almeno dieci anni a chiunque risolvesse una qualsiasi questione d’onore non in tribunale. Inutile negare che il tentativo dell’organo governante della Serenissima fu quello di infliggere un duro colpo all’arroganza del ceto nobiliare ed allo stesso tempo alla tracotanza della classe militare.

La cosa divenne ancora più perentoria dopo la bolla papale emanata nel 1560 da parte di Pio IV, che preannuncia la decisa condanna da parte della Chiesa cattolica contro il “detestabilis duellorum usus, fabricante Diabolo introductus”, indipendentemente dalla sua finalità. Il che avvenne in modo decisivo nel corso della XXV sessione del Concilio di Trento, durante la quale fu comminata la scomunica ai duellanti, ai loro consiglieri ed aiutanti nonché alle stesse autorità che avevano permesso il duello o semplicemente lo assolvevano all’interno dei loro territori. La novità di codesto concilio nei confronti di quelli che lo hanno preceduto, e quindi delle precedenti condanne in merito, sta nel fatto che la curia, resasi conto dell’impossibilità di agire direttamente sulle coscienze individuali, fa direttamente appello agli stessi governanti dei singoli Stati. Portando in tal modo la condanna non solo ad una conseguente scomunica religiosa dei singoli individui coinvolti nel fatto, ma altresì trattando l’atto alla stregua di un semplice quanto incivile atto criminale per cui punibile secondo la legge. 

A tale proposito, quanto segue è la parte del testo del decreto finale approvata da parte dei padri conciliari alla loro XXV sessione, capitolo XIX, della celeberrima assise tridentina contro la pratica del duello:

«Noi scomunichiamo oggi e senza altra forma di processo tutti gli imperatori, re, principi, marchesi, conti e altri signori che avranno accordato qualche luogo per il duello tra Cristiani – per quelli che si saranno battuti ed i padrini volgarmente chiamati. Essi incorreranno nella pena della scomunica e nella prescrizione dei loro beni, saranno considerati infami e trattati con la stessa severità dei sacrilegi. Condannati saranno pure gli spettatori, anatema perpetuo su loro senza riguardo a privilegio di casta.»

A differenza dalle precedenti condanne riguardanti la pratica del duellare che cominciarono persino a negare la sepoltura ai duellanti che perdevano la vita, in quanto considerati suicidi secondo i sacramenti; nonché quella di papa Giulio II che li scomunicava in quanto pratica che andava contro quell’etica cristiana che non permetteva di arrecare morte violenta ad un altro cristiano; la novità della scomunica tridentina era che questa chiamava in causa gli stessi reggitori dei Comuni, delle Signorie e di tutti gli Stati cristiani. Si trattava quindi di una “scomunica maggiore”, in quanto implicante lo stesso diritto civile. Non deve sorprendere come Sebastiano, figlio di Achille Marozzo, nell’ultima edizione mandata alle stampe del trattato paterno abbia cambiato il titolo in “L’Arte delle Armi” allontanandolo così, per via dei suoi contenuti (seppur inalterati), alla pratica del duello.

Campagna iscrizioni 23/24

Anche quest’anno sono aperte ufficialmente le iscrizioni per l’anno accademico di scherma storica. Se sei interessato a parlare con uno degli istruttori per l’open day scrivici in direct tramite i nostri social che trovi di seguito!